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Le parole di Padovani: un esempio estremo di prevaricazione ai danni di Alessandra Matteuzzi

La Corte d’Appello di Bologna ha confermato la condanna all’ergastolo per Giovanni Padovani, accusato di aver ucciso la sua ex fidanzata Alessandra Matteuzzi, brutalmente aggredita sotto casa il 23 agosto 2022.

Il 23 agosto 2022, Alessandra Matteuzzi è stata vittima di un’aggressione fatale a pochi passi dalla sua abitazione. Giovanni Padovani, suo ex fidanzato, l’aveva attesa sotto casa per poi aggredirla con estrema violenza. Durante l’attacco, Alessandra era al telefono con sua sorella, confidandole il timore che provava da tempo per il comportamento ossessivo e persecutorio di Padovani. Quest’ultimo, mosso da una rabbia incontrollata, ha colpito Alessandra con un martello e, in un gesto di estrema brutalità, le ha scagliato addosso anche una panchina di ferro, sfruttando un oggetto che si trovava nell’androne del palazzo.

Confermata la condanna all’ergastolo in Appello

La sentenza di ergastolo era già stata stabilita in primo grado, riconoscendo aggravanti come la premeditazione, lo stalking, i futili motivi e il vincolo affettivo. La Corte d’Appello di Bologna ha ribadito questa pena, rigettando ogni richiesta di riduzione. Nel corso del processo, Padovani ha rilasciato dichiarazioni in cui ha continuato a professare un sentimento di amore verso Alessandra, rivelando anche di sentirsi “ossessionato” da lei. Secondo Stefania Matteuzzi, sorella della vittima, l’imputato avrebbe dichiarato di “vivere due vite”, una propria e una che riteneva appartenesse ad Alessandra.

Il confronto con il caso di Luca Delfino

Durante il processo, molti hanno notato analogie con il caso di Luca Delfino, condannato anni fa per il femminicidio della sua ex fidanzata Antonella Multari. Delfino, arrestato subito dopo averla pugnalata ripetutamente, aveva mantenuto un atteggiamento simile in aula, sostenendo di amare la vittima e accusando i suoi familiari di volerli separare. Nel caso di Delfino, però, fu dichiarata una parziale incapacità di intendere e di volere, portandolo a scontare la pena in una struttura speciale.

Al contrario, per Giovanni Padovani non è stata riconosciuta alcuna patologia psichiatrica. Durante il processo di primo grado, i periti incaricati dalla Corte hanno escluso una reale infermità mentale, affermando che l’uomo mostrava una chiara tendenza a simulare sintomi psicopatologici e neurocognitivi con l’intento di ridurre la sua pena.

Una strategia basata sulla simulazione

La perizia psichiatrica ha evidenziato che Padovani ha iniziato a riferire di “sentire voci” che lo spingevano all’omicidio soltanto molto tempo dopo l’assassinio di Alessandra e precisamente nel corso delle valutazioni con i periti. Tale comportamento ha sollevato sospetti di simulazione, con l’obiettivo di manipolare il giudizio della Corte. Secondo i periti, questa affermazione sarebbe stata una mossa strategica e non un sintomo genuino di disturbo mentale.

Queste conclusioni hanno portato la Corte a considerare le dichiarazioni dell’imputato come una riprova della sua volontà di esercitare un controllo psicologico e simbolico su Alessandra anche dopo la sua morte, più che come segno di una patologia psichiatrica.

Le parole di Padovani: un’ulteriore forma di prevaricazione

Le dichiarazioni di Padovani in Aula, nelle quali continua a dichiarare il suo “amore” per Alessandra, appaiono alla Corte come un tentativo di mantenere un controllo postumo sulla vita della donna. La scelta di definirsi ancora innamorato e di confessare un’ossessione verso la sua vittima è stata interpretata come l’ennesimo atto di prevaricazione, un comportamento volto a riaffermare un legame mai realmente voluto da Alessandra.

La sorella della vittima, Stefania, ha commentato in più occasioni la condotta dell’imputato, definendola offensiva e ulteriormente dolorosa per la famiglia. “Si tratta solo di un’ossessione perversa”, ha dichiarato, “non c’è amore in tutto questo. È solo un’ulteriore violenza, una mancanza di rispetto anche dopo la sua morte”.

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