Un’inchiesta condotta dalla BBC ha rivelato che alcune confezioni di passata di pomodoro, vendute in supermercati del Regno Unito e della Germania con l’indicazione d’origine “italiana”, contengono in realtà pomodoro proveniente dalla Cina, in particolare dalla regione dello Xinjiang. Questa scoperta mette al centro dell’attenzione la tutela del Made in Italy e i rischi legati alla contraffazione alimentare.
L’indagine della BBC ha analizzato a fondo diversi concentrati di pomodoro dichiarati come italiani, tra i più diffusi nei mercati europei. Attraverso un’approfondita analisi organolettica, sono stati identificati oligoelementi che permettono di risalire al territorio di coltivazione. I risultati ottenuti sono stati poi confrontati con i dati relativi alle spedizioni di pomodori dalla Cina. Su 64 prodotti esaminati, 17 sono risultati contenere quasi esclusivamente pomodori cinesi, secondo quanto riportato dalla testata britannica.
Tra i marchi coinvolti nell’inchiesta emerge il nome dell’azienda italiana Petti, con sede in Toscana. Secondo la ricostruzione della BBC, Petti avrebbe importato decine di tonnellate di pomodori dalla regione cinese dello Xinjiang, nota per le accuse mosse al governo cinese riguardo al lavoro forzato imposto alla minoranza musulmana degli Uiguri. Successivamente, questi pomodori sarebbero stati trasformati e venduti nei supermercati europei come prodotti italiani.
La questione non è nuova per Petti, che già nel 2021 era stata coinvolta in un’inchiesta per frode e contraffazione. All’epoca, il caso si concluse con l’archiviazione delle accuse. Tuttavia, questa nuova indagine riaccende i riflettori sull’azienda toscana. Interpellata dalla BBC, Petti ha dichiarato di non aver più acquistato materie prime dalla Xinjiang Guannong, una delle principali aziende cinesi della regione, dopo che gli Stati Uniti hanno imposto sanzioni nel 2020 contro il lavoro forzato. Tuttavia, l’azienda italiana ha ammesso di aver continuato a rifornirsi da un’altra società cinese, la Bazhou Red Fruit. Secondo l’inchiesta della BBC, quest’ultima sarebbe una società fantasma collegata alla Xinjiang Guannong.
In una dichiarazione ufficiale, Petti ha affermato: “Abbiamo deciso di interrompere la compravendita di prodotti a base di pomodoro dalla Cina e rafforzare i controlli sui fornitori per garantire il rispetto dei diritti umani e dei lavoratori.” Nonostante queste rassicurazioni, l’inchiesta solleva dubbi sulla trasparenza delle pratiche commerciali dell’azienda.
Oltre a Petti, altri marchi sono stati menzionati nel rapporto della BBC. Alcuni di questi hanno respinto le accuse, sostenendo di aver condotto indagini interne che avrebbero prodotto risultati opposti rispetto a quelli riportati dalla testata britannica. Tra le aziende che hanno preso provvedimenti ci sono Tesco e Rewe, che hanno deciso di ritirare i prodotti incriminati e interrompere le forniture. Lidl, invece, ha ammesso di aver utilizzato pomodori cinesi per un breve periodo di tempo. Coinvolti nell’inchiesta anche marchi come Asda e Penny.
L’indagine della BBC ha suscitato reazioni anche in Italia. Coldiretti e Filiera Italia hanno sottolineato la necessità di rendere obbligatoria l’etichettatura d’origine per proteggere il Made in Italy e garantire la trasparenza verso i consumatori. In un comunicato congiunto, Coldiretti ha dichiarato: “È fondamentale introdurre norme più rigide sull’etichettatura per evitare che prodotti stranieri siano spacciati come italiani, danneggiando sia i produttori locali sia i consumatori.”
La questione del pomodoro cinese non è nuova. Già a maggio scorso, Coldiretti aveva organizzato una protesta al porto di Salerno contro un carico di concentrato di pomodoro proveniente dalla Cina. Secondo le accuse dell’associazione agricola, il concentrato sarebbe stato prodotto sfruttando il lavoro forzato delle minoranze nella regione dello Xinjiang.
La Cina è uno dei principali produttori mondiali di pomodoro destinato all’industria alimentare e negli ultimi anni ha incrementato significativamente la sua produzione. Questo fenomeno rappresenta una sfida per i produttori italiani, che devono competere con prezzi più bassi ma spesso a discapito della qualità e della trasparenza.
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