La difesa di Filippo Turetta tenta di ridurre le aggravanti nel caso Cecchettin, puntando su argomentazioni controverse e sollevando indignazione.
Nella giornata di ieri, presso l’aula della Corte d’Assise di Venezia, l’attenzione si è concentrata sull’arringa della difesa di Filippo Turetta, imputato per il femminicidio di Giulia Cecchettin. I legali di Turetta hanno presentato una strategia volta a mettere in dubbio la premeditazione e altre aggravanti contestate, cercando di evidenziare la buona condotta passata dell’imputato. In questa linea difensiva, si è insistito sul fatto che una condanna all’ergastolo non garantirebbe alcuna possibilità di rieducazione per il giovane.
Tra i passaggi più discussi, l’avvocato ha dichiarato che Turetta “non è el Chapo o Pablo Escobar” e “non puntava ad essere un latitante inafferrabile”, sottolineando come l’intenzione fosse più quella di minimizzare la pericolosità del giovane e di umanizzarlo. Questi tentativi hanno inevitabilmente sollevato polemiche, soprattutto per il modo in cui alcuni argomenti sono stati formulati, con implicazioni che rischiano di mettere in discussione il comportamento della vittima.
Una parte dell’arringa ha suscitato particolare indignazione per l’impressione di voler attribuire una parte della responsabilità dell’omicidio alla stessa Giulia Cecchettin. L’avvocato ha sostenuto che Giulia non nutriva paura di Filippo Turetta, evidenziando il fatto che sarebbe stata lei a dargli appuntamento l’11 novembre, giorno in cui ha perso la vita. “Giulia non aveva paura… Se davvero avesse temuto per la propria incolumità, vogliamo pensare che avrebbe dato appuntamento al suo futuro omicida?” ha dichiarato il legale, aggiungendo che la ragazza continuava con la sua vita quotidiana, organizzandosi per eventi e concerti, e che la sua frequentazione con uno psicologo non sarebbe legata a Filippo.
Queste affermazioni, che sembrano insinuare una corresponsabilità della vittima, sono state duramente criticate da chi ha sottolineato come rappresentino un ulteriore esempio di rivittimizzazione. Giulia Cecchettin, secondo gli esperti, si trovava invece all’interno di una relazione maltrattante, caratterizzata da manipolazione psicologica e da un ciclo tipico di violenza emotiva.
In un audio inviato a Filippo Turetta il 7 novembre, pochi giorni prima della tragedia, Giulia spiegava chiaramente le sue preoccupazioni, dicendo di non voler condividere dettagli sui propri impegni “per sicurezza”. Turetta, in risposta, aveva cercato di fare leva su un tono disperato, implorandola di aiutarlo e rassicurandola che “non succederà mai” nulla contro la sua volontà. Tuttavia, è noto che nelle stesse ore l’imputato stava pianificando nei dettagli l’aggressione, stilando una lista di strumenti necessari, tra cui un coltello.
La dinamica descritta dagli esperti mette in luce il tipico schema del “ciclo della violenza”, in cui fasi di aggressività si alternano a momenti di apparente pentimento e promesse di cambiamento. In questo contesto, la vittima spesso adotta comportamenti ambivalenti come strategia di autoprotezione, cercando di evitare ulteriori escalation di violenza.
Un documento lasciato da Giulia Cecchettin prima di decidere di porre fine alla relazione descriveva chiaramente il comportamento di controllo esercitato da Filippo Turetta: “Non esistono i tuoi spazi, quando vuole rapporti non puoi dire di no perché diventa insistente e potrebbe reagire male… Non accetta le mie uscite con le amiche e vuole sapere tutto, anche cosa dico di lui allo psicologo.” Queste parole offrono uno spaccato drammatico della relazione e delle dinamiche di abuso emotivo.
Secondo gli psicologi forensi, tali dinamiche sono tipiche delle relazioni abusanti, in cui la vittima, legata emotivamente al proprio aggressore, tende a cercare una via d’uscita che non sempre viene percepita come immediatamente possibile. Per questo motivo, parlare di paura o assenza di paura in termini assoluti è fuorviante, poiché le reazioni delle vittime sono spesso il risultato di anni di manipolazione psicologica e abuso.
Giulia Cecchettin stava cercando di riprendere in mano la propria vita, alternando momenti di distacco a incontri con Filippo Turetta, probabilmente nel tentativo di chiudere gradualmente il rapporto. Tuttavia, queste strategie non sono state sufficienti a proteggerla, poiché l’imputato aveva già pianificato il crimine con estrema precisione. Ogni responsabilità per quanto accaduto, come ribadito da esperti e associazioni contro la violenza di genere, ricade esclusivamente su di lui.
La vicenda di Giulia Cecchettin continua a sollevare interrogativi sul modo in cui vengono trattati i casi di femminicidio, sia nei tribunali che nel dibattito pubblico. Le argomentazioni avanzate dalla difesa di Filippo Turetta, sebbene legittime in un contesto giudiziario, sono state percepite da molti come un tentativo di giustificare l’ingiustificabile, a discapito della memoria della vittima. La necessità di una riflessione più ampia sul linguaggio utilizzato e sull’approccio a questi casi appare oggi più urgente che mai.
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